Era il 1909 – cento anni fa – quando un giovane naturalista bresciano, Gualtiero Laeng, rinveniva durante una delle sue escursioni in Valle Camonica, nei pressi di Cemmo, un curioso masso istoriato con figurazioni incise e picchiettate sulla superficie della pietra. Non era ancora ben chiara l’mportanza epocale del fortunato ritrovamento: all’epoca il fenomeno dell’arte rupestre era assai poco conosciuto, e soprattutto raramente considerato quale autentica testimonianza storica. Ci volle dunque ancora del tempo, e con esso gli studi di alcuni grandi pionieri della ricerca, per cominciare a dare il giusto valore a quelle figurine che da tempo immemore i valligiani chiamavano pitoti (“pupazzi”, “burattini”); tuttavia, il seme dell’interesse era ormai gettato: da quel momento, le montagne della Valle Camonica sarebbero di fatto entrate nel ristretto circolo dei luoghi d’elezione dei grandi studiosi europei e mondiali di arte preistorica.
Settant’anni più tardi – nel 1979, trent’anni fa – l’importanza delle incisioni camune era ufficialmente riconosciuta dall’UNESCO, che le inseriva quale primo sito italiano nella World Heritage List perché “l’incisioni rupestri della Valle Camonica affondano le loro radici ad 8000 anni prima della nostra era” e dunque “non è necessario insistere sul carattere particolarmente prezioso delle manifestazioni umane che risalgono ad un periodo così antico”, e perché “le incisioni rupestri della Valle Camonica costituiscono una straordinaria documentazione figurata sui costumi e sulle ideologie preistoriche. L’interpretazione, la classificazione tipologica e gli studi cronologici su questi petroglifi hanno apportato un contributo considerevole nei settori della preistoria, della sociologia e dell’etnologia.”